domenica 31 ottobre 2010

Estasi mortale


Sedevo in bilico su di una sedia d'ospedale di un blu sciapido che cigolava ad ogni impercettiblie movimento. La plastica della spalliera non sarebbe stata sufficiente a sorreggere il mio peso - decisi dunque che fosse meglio non appoggiarmi. Nell'aria aleggiava un odore di disinfettante misto a brodo di pollo proveniente dalla mensa; insopportabili poi le sirene dell'ambulanza che, avvicinandosi, parevano fendere il tempo in maniera ritmica.  Mi chinai in avanti e posai le dita sulle tempie pulsanti, premendo forte, forte, nella speranza che la ferocia del mal di testa mi concedesse un attimo di tregua. Prima di chiuder gli occhi lo sguardo cadde sul pavimento scrostrato, abitato da mattonelle grigie, spezzate, tra le quali ve ne era una che addirittura ballava spiccando al di sopra delle altre. Cercai di distrarmi, trovai quasi curioso quel tetro ambiente ospedaliero in cui purtroppo mi trovavo. La lampada in neon era in procinto di fulminarsi: la parte sinistra scoppiettava, fornendo una luce intermittente che non bastava ad illuminare quella stanza in cui non trovava posto che un lungo finestrone, opaco, pieno di polvere ed arricchito da piccole mostre ivi incastrate.
Abbandonato a se stesso, insomma, tanto quanto me, in quella miseria di stanza.
Ecco però delle voci in lontananza: da una porta, prima lasciata socchiusa con l'ausilio di una sedia appoggiata, comparvero due medici avvolti ne loro candidi camici bianchi.
Quell'arrivo nella sala d'aspetto era stato anticipato dal progressivo avvicinarsi del rumore di zoccoli, dall'emblematico eco che subito si andava diffondendo pe il corridoio. Iniziai a percepire qualche stralcio di frase - erano davvero vicini dunque - e confabulavano tra loro. Aprii gli occhi con un violento battito di ciglia, balzai in piedi e con un finto coraggio mi preparai ad accogliere il responso. Erano ormai a un metro di distanza, fui costretta ad ascoltarli, sebbene l'impresa di decifrare le loro parole si dimostrò più difficile del previsto; ne studia la tesa fisionomia, gli angoli della bocca inarcati all'ingiù, mentre scuotevano la testa con un'angoscia mal celata. Cattive notizie , insomma. Sgranavano frasi, epure non li stavo più a sentire: sembravano due stranieri, di cui non si conosce la lingua, che ti fermano per la strada alla ricerca di informazioni turistiche. Continai a fissare il mio sguardo dentro il loro, fingendomi concentrata; in realtà mi sentivo dentro una bolla insonorizzata che mi impediva di avere contatti con il mondo esterno. Nel frattempo comunque la loro espressione del viso si andava spegnendo, ed io captai il messaggio - abbandonandomi alla consapevolezza che non avrei mai più rivisto la mia professoressa.
Non era sopravvissuta alla complicata operazione chirurgica; io ero lì per lei, mi ero illusa che tutto si sarebbe potuto tramutare in un lieto fine, ma così non fu. La realtà non assume mai le connotazioni di una fiaba, mai.
Il tumore aveva avuto la meglio, ecco cosa era successo... impietrii.
Non ebbi alcuna reazione apparente,ma dentro me sentivo l'inizio di una catastrofe naturale.
Volsi lo sguardo verso destra, e focalizzai l'unica immagine che in quel momento non avrei voluto vedere: un bambino, di otto, nove anni appena, chino su candide pagine d'un libro. Era intento nella lettura, pareva immerso in una dimensione parallela; cercai anche di decifrarne il titolo, così, leggendolo al contrario, ma ero in uno status tale che fallii la semplice impresa.
Mella mia memoria si andava materializzando l'immagine della mia professoressa; lei, appena deceduta nella stanza accanto, che in un passato nemmeno troppo remoto aveva cambiato la mia vita di quasi-adolescente. Capii solo allora che non avrei più avuto l'occasione di ringraziarla - era morta prima che potessi mostarle quando il suo aiuto fosse stato davvero importante per me.
Lei fu la prima che, in linea ufficiale,mi iniziò alla letteratura, facendomi innamorare del cartaceo; fu lei che per prima si accorse della mia propensione alla scrivere,la prima a spendere parole d'incoraggiamento,la prima a credere in me e in un ipotetico futuro.
Un giorno mi mise in mano il Fu Mattia Pascal, una meravigliosa edizione, relegata, alla quale lei teneva particolarmente - era la sua copia, chissà quante volte l'avrà sfogliata, magari nel rileggre qualche passaggio o semplicemente per percepire il fruscio della cart emesso sotto le sue dita. Era la sua copia, un libro con tutta una storia dietro, che dicise di donare a me e a me soltanto. Più o meno consapevolmente quel dono instaurò un rapporto speciale tr noi, ci rese complici - in segreto. Quel gesto mi cambiò la vita, la rese migliore, più ricca e florida: aveva così sancito un nuovo inizio. E ora, ora che lei non ci sarebbe più stata? Avevo perso una parte di me ; la sua era una mancanza incolmabile, che potevo però esorcizzare con l'aiuto di quel libro e con la forza dell'amore che lei mi aveva insegnato e trasmesso.

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A voi offro un cumulo di parole incenerite sotto l'obiettivo della mia macchina fotografica... Niente più, niente meno di questo.